Da quando il nostro Paese è una Repubblica, Giulio Andreotti ha sempre fatto parte del Parlamento (dall’Assemblea costituente del 1946 fino a ieri).
Illuminanti le parole di Nando Dalla Chiesa:
Non posso negarlo. Con lui avevo una questione personale. Per via dell’assassinio di un prefetto che mi era caro. Ucciso a Palermo il 3 settembre del 1982. Che era stato al suo diretto servizio: lui capo del governo, il prefetto – allora generale dei carabinieri – alla guida della lotta al terrorismo.
Una settimana dopo quel 3 settembre venne intervistato alla festa dell’Amicizia (ossia della Democrazia cristiana) da Giampaolo Pansa che gli domandò perché non fosse andato ai funerali del prefetto: “Perché preferisco andare ai battesimi”, rispose lui mandando in sollucchero il pubblico.
Era la sua ironia, quella che deliziava politici e giornalisti cortigiani.
Poi andò dai democristiani siciliani e li invitò tra gli applausi a respingere “il falso moralismo di chi ha la bava alla bocca”.
Ricordai perciò subito quel che il prefetto mi aveva detto passeggiando in campagna; qualche settimana prima di essere ucciso, per spiegarmi perché gli fosse così duro rappresentare la legge a Palermo: “Gli andreottiani ci sono dentro fino al collo”.
Feci a un quotidiano alcuni di quei nomi, invitando a cercare nei loro ambienti di partito i mandanti del delitto e mi costò un marchio di infamia. Scoprii poi che l’uomo politico si era pubblicamente pronunciato contro la nomina a prefetto della vittima sostenendo che il vero pericolo venisse da Napoli e non da Palermo, dove pure avevano tirato giù in pochi anni tutte le più alte cariche istituzionali.
Scoprii ancora che il prefetto, dopo un’intervista del sindaco (andreottiano) di Palermo aveva scritto al capo del governo, Giovanni Spadolini, di essersi sentito minacciato “dalla famiglia politica più inquinata del luogo”. Parole grandi, cupe, che Spadolini, galantuomo, lasciò senza risposta.
L'articolo completo del 07.05.2013 è in questa pagina
